Ciò che noto è che nel film di Guadagnino c’è questo desiderio assopito, addomesticato che pure quando esplode ha la seducente e filtrata trasparenza di un riverbero. C’è questa eco garbatamente lasciva, una melodia remota che richiama il dionisiaco, sollecitandolo. E poi c’è questa bellezza mai austera della natura, con tutto il suo tessuto prezioso di simboli e segni. Ci sono corpi bagnati di luce o scrutati nella penombra delle persiane accostate, quelli che risorgono dalle acque, metalliche reliquie di un aureo mondo inabissato. C’è il capriccio implacabile dell’adolescenza, lo smarrimento dei primi sussulti; l’Eden placido e rigoglioso della giovinezza, in cui consumare i primi frutti succosi o bagnarsi nelle acque fresche di una fonte quasi metafisica. Nulla dello spirito del bellissimo racconto di Aciman si è perso, anzi. Guadagnino restituisce un’attinenza quasi tattile alle cose, una riverenza al mondo da grande esteta e autore (i cui maestri sono ben noti) quale è. Lavora più per sottrazione che per accumulo, smussa dove è possibile ridurre a mera immagine, accogliendo l’ambiguità della metafora. Una costante dialettica tra semiotica e semantica che non può che trovare la più forte espressione nello slittamento di individualità, lo stesso che permette un ultimo, insistente chiamarsi per nome: quello dell’altro.
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