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MOONLIGHT - BARRY JENKINS





Suddiviso in tre capitoli (infanzia, adolescenza, età adulta), uno meno interessante dell’altro, il Bildungsroman queer di Jenkins manca di una vera vocazione, se non quella tutta tesa alla forma, alla "maniera". Se il ricorso al commento sonoro - eseguito da orchestra, in più momenti di derivazione liturgica, scritto da Nicholas Britell - si propone, pasolinianamente (ebbene sì!) di ricercare il Sacro nella miseria, il risultato è la mistificazione di quest'ultima nel tentativo di una sua sublimazione cinematografica e drammaturgica.  Ecco quindi che, se il "battesimo" nell'oceano è forse la migliore soluzione visiva del film,  la confessione "stonata", che quasi fa il verso a uno pseudo-virginale mariano ("Sei stato l'unico uomo ad avermi toccato e io non ho toccato nessun altro") vacilla pericolosamente in un epilogo tutto giocato sulla sobrietà, di sguardo in primis (come dimostra la discrezione, di pudica riservatezza, dell'ultima inquadratura). L’impiego del simbolo, come l'infanzia e l'acqua, altrettanto incautamente, si riconduce a un immaginario poetico scarno e sterile in cui riescono a convivere - non senza involontari effetti grotteschi - un primo bacio che si consuma in notturna, in riva al mare, tra le carezze del vento e un’acquisita consapevolezza (sessuale, s’intende), così come boxer madidi di umori che bagnano il risveglio, previa carrellata di immagini a mo’ di videoclip, di subliminale carica erotica. La ricerca di un'estetica - che più che comunicare pare compiacersi di se stessa  –  altrettanto (poco) efficace, è infruttuosamente inamidata nel rigore calligrafico, acquisendo un grande senso per le sfumature cromatiche, meno per quelle emotive, a cui neanche una scrittura scialba e incolore riesce a dare voce. Al contrario, il plenilunio può giusto trascrivere le sue nuance in un nomignolo (Blu), senza riuscire a cogliere i corpi (di bambino, adolescente o adulto) in un istante di luce che sia significativo, potente, vero, quando l’immagine può definirsi autonoma senza il vezzo di chi vi cerca l’artificio costante, la sua falsificazione, un significato rigorosamente cinematografico.


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