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BIRDBOX - SUSANNE BIER

P roseguendo sulla scia degli horror sulla privazione dei sensi, di recente ripreso da A Quiet Place , BirdBox - tratto dal romanzo di Josh Malerman - concilia piccole pretese e mero intrattenimento ridimensionato al piccolo schermo (quello via Netflix). La Bier ci mette giusto il mestiere e opera con approssimazione: quanta sveltezza nel prologo, quanta inconsistenza di sguardo sui personaggi di contorno! Come con la goffa Paulson, nei disastrosi minuti iniziali, o il poco aderente Malkovich, che nella parte proprio non riesce a entrare. Fatta eccezione di un finale votato a un rassicurante sentimento quasi ecumenico - che non è comunque così male come dicono - l’etica del racconto è poi di ambiguo orientamento: i pazzi, che di fatto non sono quelli “pirandelliani”, sono davvero cattivi e la loro esenzione dalla realtà più accreditata va a discapito di tutti gli altri; la loro ricerca della verità, quella che alcuni “dotti” del pensiero avvaloravano come libertà, pura e auten
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AT ETERNITY'S GATE - JULIAN SCHNABEL

C he curioso lavoro At Eternity’s Gate! Schnabel - che è anche pittore - non solo rifugge la maniera e il calligrafico rievocativo, consuetudine e vezzo del bio-pic “in costume”, ma la sua tecnica è anche sporca, sostiene il peso della camera a spalla, (ri-)utilizza semplici trucchi (un filtro, un vetro) per restituire una qualche alterazione percettiva e clinica della retina (maculopatia?). C'è poi il gusto autoriale, quello che demarca il perimetro del "metodo", superandolo, e permette quindi l'accesso a una forma peculiare, a un linguaggio "eletto", qui di pura ispirazione e di potente fremito. Ecco allora  soggettive, piani ravvicinati (e ravvicinatissimi), con cui si rinnova quell’auspicio di simbiosi tra obiettivo e attore, che tanto piaceva al Kammerspiel: si rintracciano, con curiosità e - scontato da dire - sensibilità quasi pittorica, quelle minime linee d’ombra sui volti, che si trascinano dietro una potente capacità drammaturgica, complem

VICE - ADAM MCKAY

A ggirando il rischio del didascalismo, vagamente episodico e nozionistico, del film biografico medio, McKay trascende il genere e ne amplifica la portata, indagando anche su mezzi e linguaggio - quindi sulle possibilità - del cinema, svincolato da ogni etichetta. Sta qui la capacità di collezionare una serie di suggestioni e associazioni che - come ne La Grande Scommessa - si avvale di un lavoro di montaggio (ad opera di Hank Corwin) massiccio e sofisticato, tutto votato alla ricerca di un “senso”, di significato. È difatti a partire da una forte dialettica tra dispositivo e soggetto che il metalinguaggio si fa particolarmente gustoso, rasentando a tratti anche la poesia (ad esempio in una significativa corrispondenza d’immagini tra il discorso di Bush Jr. e una famiglia irachena sotto ai bombardamenti). In questo quadro sui generis perfino un espediente scontato come il voice over si dimostra, infine, veicolo di un’ ironia affilatissima. Ma il film è anche suo: il Cheney di

MARY POPPINS RETURNS - ROB MARSHALL

I l vento cambia a Viale dei Ciliegi, e la celebre bambinaia, a mo' di cherubino, appare nel cielo plumbeo di Londra, proprio come fece qualche decennio prima, sempre davanti casa dei Banks, ma impigliata stavolta  a un aquilone sfasciato : di fatto l’unico episodio realmente spettacolare di questo Returns . Il confronto grava e c'è da ammetterlo: Emily Blunt non è Julie Andrews. È carina e ha garbo ma tutt'altro che "praticamente perfetta, sotto ogni aspetto!": mai  vista del resto una Mary Poppins così accomodante e incline alla leggerezza!  Di contro, i piccoli Banks sono fin troppo intraprendenti e non conoscono castigo che non sia un fugace rimprovero del babbo bonaccione e vedovo. Anzi, è difficilmente condannabile il loro essere così leziosamente disponibili e responsabili (li vediamo all'inizio dirigersi alla drogheria, badando al più piccolo, Georgie, da veri e bravi fratelli maggiori) e anche il gesto più sovversivo che compiono è dettato da u

L’AMICA GENIALE - SAVERIO COSTANZO

I l merito di Costanzo è, prima di tutto, nell’adesione a un realismo - complice anche l’adozione del dialetto - che non si traduce in sterile vanità di adesione al “reale” geografico, quanto in una compenetrazione di scelta autoriale e soggetto, da cui detona, in tutta la sua irruenza, una vitalità implacabile. La lingua parlata è ne L’ Amica Geniale non solo mezzo ma anche e sopratutto contenuto. Il bilinguismo, con cui si oscilla dall’italiano al dialetto, comporta di fatto uno slittamento semantico non trascurabile: il primo è associato al rione, il secondo al mondo al di là di questo, ma soprattutto alla cultura (e alla sua ostentazione). In secondo luogo, Costanzo è assai puntuale nel rigore con cui riconduce alle due protagoniste ogni progresso della narrazione, come del resto è nel bel romanzo di formazione della Ferrante: per Lenù e Lila - attraverso i loro volti azzeccati e altamente espressivi - passano la Storia, il degrado di un ambiente, il silenzioso moto d

SUSPIRIA - LUCA GUADAGNINO

"L a madre è quella persona che può sostituire tutti ma che nessuno può sostituire”. L’aforisma, ricamato e ingiallito, vige impietoso dietro il vetro di un quadretto, nell’ austero decoro di una casa di campagna. Il respiro ruvido di una donna agonizzante gratta e riempie un silenzio che suona già di lutto. I sospiri - non solo quelli della Mater - sono il suono di un turbamento atavico, un formulario da recitare che sancisce il ricongiungimento con la morte o con l’ignoto (nella sua accezione più perturbante). Come in Argento, piove molto quando Susie Bannion arriva in accademia.  Ed è brutto tempo per gran parte del film. In questa Berlino gelida, dalla poca fantasia cromatica (ottima ancora una volta la fotografia di Mukdeeprom), scissa dalla spoglia traiettoria del Muro, la reazione può solo che esplodere nella violenza, mentre dannati nella Colpa e vessati dal Castigo, Heimat (= patria, come madre) e Volk ( non a caso titolo di uno dei brani firmati  da

THE SHAPE OF WATER - GUILLERMO DEL TORO

N ella sua torbidezza salmastra, tutta giocata su queste gradazioni lagunari del verde, la love story di Del Toro calca sentieri palustri della poesia, in cui il sentimento va di pari passo alla sensazione. C’è difatti un paradosso dialettico costante, tra garbo e nefandezza, che tutto sommato riescono a coesistere, non senza ripercussioni sull’impatto generale dell’opera. A un certo metalinguismo - in un paio di episodi particolarmente riuscito - si alterna una declinazione splatter di serie B, cruda ed eccessiva. Se, quindi, la chimera mostruosa (identità fantastica recuperata, con nostalgia, dall’horror anni ’50) non può che rapportarsi con un’architettura decadente e di antico fasto come un cinema - curiosamente posto sotto l’appartamento di Elisa - colpita direttamente dal fascio di luce della proiezione, sancendo la sua natura di rêverie e la qualità mitopoietica del cinema, allo stesso modo, tramite un processo di scarnificazione linguistica del cinema - che sacri