Aspetto primo rassicurante è che Spielberg sa come sottrarsi al commento didascalico, ribadendo una capacità di racconto che tutela l’integrità (e, non di rado, l’autonomia) drammaturgica del personaggio, di cui rilancia la complessità sfaccettata. Il secondo è l’ampio respiro di propositi: la trafila di origine etica (a tratti un po' programmatica, forse) che conduce alla riesumazione dell’onere del giornalista si accompagna, difatti, a un discreto reminder sulla questione di gender, ampliando la portata dialettica del film; non è un caso che pure gli interni, in tal senso, sottendano un’indagine di contesto. E così, mentre la Streep - ancora una volta eccelsa - combatte per la legittimità del proprio ruolo (in quanto erede, ma ancora prima in quanto donna), contro un’ élite collegiale di forte presenza maschile e minacciosamente maschilista, Hanks rivendica il diritto all’informazione e alla verità, riscattando la stampa dalla morsa letale dell’omertà. Questo cutaneo stigma rivoluzionario si trasmette anche in alcuni momenti di cinema-manifesto e in soluzioni visive peculiari, in cui l’autorialità si rimette al conseguimento di intenti; intenti legati all’espressione massima di integrità professionale, in primis, e individuali poi, trascritti e battuti su carta - o meglio su pellicola - coi caratteri mobili (del cinema) raccolti sotto lo stesso denominatore di rischio e imprevedibilità, in vista dell’utopia della libertà.
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