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MARY POPPINS RETURNS - ROB MARSHALL



Il vento cambia a Viale dei Ciliegi, e la celebre bambinaia, a mo' di cherubino, appare nel cielo plumbeo di Londra, proprio come fece qualche decennio prima, sempre davanti casa dei Banks, ma impigliata stavolta a un aquilone sfasciato: di fatto l’unico episodio realmente spettacolare di questo Returns. Il confronto grava e c'è da ammetterlo: Emily Blunt non è Julie Andrews. È carina e ha garbo ma tutt'altro che "praticamente perfetta, sotto ogni aspetto!": mai  vista del resto una Mary Poppins così accomodante e incline alla leggerezza! 
Di contro, i piccoli Banks sono fin troppo intraprendenti e non conoscono castigo che non sia un fugace rimprovero del babbo bonaccione e vedovo. Anzi, è difficilmente condannabile il loro essere così leziosamente disponibili e responsabili (li vediamo all'inizio dirigersi alla drogheria, badando al più piccolo, Georgie, da veri e bravi fratelli maggiori) e anche il gesto più sovversivo che compiono è dettato da un nobile intento (introdursi nell'ufficio del direttore di banca per trattare il pignoramento della loro casa). E c'è questa mamma defunta, incubata negli occhi dell'una e nel portamento dell'altro, che è pretesto di un languore luttuoso che fa rima con "stella" e "la più bella". 
Soprattuto, perché è giusto parlare di un remake e non di un sequel? Perché le variazioni sul tema sono pressoché inesistenti e l’intreccio azzarda pochi percorsi alternativi e nemmeno tanto avvincenti. Così come i personaggi, aggiornati alla Grande Depressione ma immutati nella sostanza: agli spazzacamini si sostituiscono i lampionai, alle suffragette le sindacaliste, il nipote del banchiere Wilkins - che ha preso il posto dell’anziano zio - è altrettanto burbero e ama incassare mandando sul lastrico una ventina di famiglie a settimana (i Banks tra queste). Altri tornano, come l'ammiraglio vicino di casa, ossessionato da una puntualità che puntualità non è (salvo colpo di scena finale).
In questo varietà, in cui Marshall è indubbiamente a suo agio e ha anche tempo di omaggiarsi (l’entr’acte di Mary Poppins con caschetto à la Chicago), non esiste un’autonomia di racconto, troppo debole per esistere al di là di effetti ed effettacci: l’intervento del digitale negli “abissi” della vasca da bagno è di poco valore, la parentesi animata - con disegni al carboncino e incursione della CGI - ha, al di là di ogni previsione, molto da invidiare a quella dell’originale. L’episodio con la Streep è semplicemente banale, se non insulso; discorso diverso per i camei di Van Dyke e della Lansbury, teneri e di una grazia agée.
E poi queste canzoni, spesso lunghe, dai testi ridondanti e tutt’altro che memorabili, nonostante ci si sforzi di scrivere un motivetto o un ritornello anche solo lontanamente accattivante (“ La copertina può nascondere un libro/ Nessun abito fa il monaco/ C’è sempre un quid pro quo” ?). La verità è che le due ore e dieci sono decisamente troppe e stavolta la pillola proprio non va giù, neppure con lo zucchero.

🌂

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