Aggirando il rischio del didascalismo, vagamente episodico e nozionistico, del film biografico medio, McKay trascende il genere e ne amplifica la portata, indagando anche su mezzi e linguaggio - quindi sulle possibilità - del cinema, svincolato da ogni etichetta. Sta qui la capacità di collezionare una serie di suggestioni e associazioni che - come ne La Grande Scommessa - si avvale di un lavoro di montaggio (ad opera di Hank Corwin) massiccio e sofisticato, tutto votato alla ricerca di un “senso”, di significato.
È difatti a partire da una forte dialettica tra dispositivo e soggetto che il metalinguaggio si fa particolarmente gustoso, rasentando a tratti anche la poesia (ad esempio in una significativa corrispondenza d’immagini tra il discorso di Bush Jr. e una famiglia irachena sotto ai bombardamenti).
In questo quadro sui generis perfino un espediente scontato come il voice over si dimostra, infine, veicolo di un’ ironia affilatissima.
Ma il film è anche suo: il Cheney di Bale, imponente e “allargato” - supportato da una manciata di bravi attori - si appresta a diventare mito e caricatura di un immaginario politico, ma soprattutto cinematografico sugli USA. Padre e pastore, fintamente docile e oscenamente ipocrita, incarna l’american dream (dalle risse nei pub di provincia allo - o meglio a un passo dallo - Studio Ovale) e, quindi, la sete di grandezza di un’intera nazione (“la nazione più grande del mondo”), colta in tutta la sua patetica e indecente ambiguità: cosa dire della banalità raccolta in una stanza, con un “campione demoscopico”, in cui Al-Qaida è il nome di una nazione e Trump è già pienamente “eletto”?
Basterebbero quei falsi titoli di coda, inseriti a metà della visione, per riscattare quel sogno di happy end, a cui può dar vita quel mezzo affabulatore e mitopoietico che è il cinema, ma del resto anche la politica. Vice viaggia su questo doppio binario: tra fiction e inchiesta, tra l’illusione e la necessità di averla, per esorcizzare la realtà a discapito della coscienza.
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